C’è una cappa che preme su Napoli, che non è solo di sgomento e paura per la serie di giovani morti che si è verificata nelle ultime settimane. Quella che oscura la vista è una coltre d’ipocrisia, ormai antica, che impedisce di distinguere questi fatti di cronaca per quello che sono. Il dolore e lo spavento, l’allarme, sembrano disinnescati nel dibattito pubblico come da un micidiale anestetico. Perché tutto quello che avviene oggi è avvenuto cento, mille volte, e tutto quello che si può dirne è stato, altrettanto, già detto. E che se n’è fatto di tutte quelle parole, ripetute fino alla nausea? Tutto, allora, si osserva attraverso il filtro deformante della sfiducia, quasi della rassegnazione.
Per venire, infine, a questi giovani che si ammazzano gli uni con gli altri, che altra risposta mai si può dare se non quella della scuola? E poi della scuola e ancora una volta della scuola? Della scuola a forza e per forza? Non viene in mente altro, semplicemente perché non c’è altro che li possa salvare. Il disagio economico e sociale, la necessità assoluta di sovvertire l’ordine dei modelli che avvelenano le menti. Dove si cura tutto questo, se non a scuola? Di solito, la retorica politica – divenuta comprensibilmente odiosa – si riferisce a quello che dobbiamo fare per i nostri figli. In questo caso non è così, non basta: quello che faremo, se lo faremo, sarà per i nostri nipoti. Siamo disposti? E poi, lasceremo che resti retorica?