Caro Carlo Verdone, hai proprio tutte le ragioni quando pensando alla nostra Roma ti senti avvilito. Del resto, sarebbe ipocrita negare che i problemi sono tanti: alcuni antichissimi quanto la città, ma tanti altri invece si rinnovano ogni giorno in un circolo vizioso alimentato da incuria, abbandono e ritardi. Hai ben incorniciato la definizione di decadenza di Roma e della sua qualità della vita che palpabilmente scade sempre più, trasmettendo una deprimente sensazione di impotenza, come se la città che amiamo ci scivolasse di mano.
Perdersi nella propria città: hai suggerito questa immagine triste, che poi è sfumata nella tua tentazione di lasciare Roma, finendo quindi per perdere la tua città. Ed è lì che, pur comprendendo benissimo il tuo disagio, non ti seguo più.
Non possiamo lascare Roma e non dobbiamo. Questa città stanca e sbandata, afflitta da un caldo che hai perfettamente definito “volgare”, a mio parere non è condannata, finita, irrecuperabile, tanto da dovercene andare.
Forse è il momento che i romani, tutti i romani, inizino a restituire qualcosa a questo monumento che abitiamo, facendo qualcosa. E attenzione: io credo che denunciare che le cose non vanno sia già qualcosa. La minaccia più grande, quella che davvero non lascerebbe scampo, sarebbe la nostra indifferenza, la rassegnazione a uno stato di cose al quale non dobbiamo dare la patente di irrecuperabile. Penso che Roma questo se lo aspetti ancor di più dai suoi figli migliori e che forse – dobbiamo dirlo – non sono neanche tra quelli che ne soffrono di più i disagi, le brutture e le scomodità.
Certo, bisognerà andare oltre la denuncia e la giustificata lamentazione: bisognerà anche essere propositivi e coraggiosi, ma si può fare. Io dico che si può fare. Insomma, caro Carlo: non te ne andare, non lo pensare neanche. Non asfaltiamolo questo Tevere. Resta.
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