L’esodo dei medici italiani all’estero: in Italia stipendi fuori mercato, turni massacrati e poche prospettive di crescita

Come può garantire la salute dei cittadini una sanità che si svuota, che ogni giorno perde pezzi e che non riesce ad attrarre e a trattenere le energie migliori? Molto semplice: non può. E quel che può lo fa molto peggio di come invece dovrebbe. In molti si sono esercitati ultimamente nell’analisi di numeri implacabili, che riguardano l’impressionante e sempre crescente schiera di medici italiani che scelgono di trasferirsi all’estero per ottenere condizioni di lavoro più vantaggiose e soddisfacenti.

Così come è noto il problema di organico degli infermieri, il cui numero totale è molto lontano dal plenum funzionale delle nostre strutture sanitarie. E non parliamo, purtroppo, di centinaia di unità, ma di decine di migliaia di posti vacanti, che si traducono giocoforza in mancata o pessima assistenza per chi si rivolge alla sanità pubblica. Il tutto, ovviamente, nonostante gli sforzi quotidiani di chi invece resiste al suo posto, nei reparti e nei pronto soccorso affollati, a fronteggiare una marea di richiesta che inevitabilmente li travolge, prima con l’urgenza e poi con l’insoddisfazione. Al danno, insomma, come sempre si aggiunge la sua immancabile e sarcastica compagna: la beffa.

La situazione dell’impiego in questo settore è tanto compromessa da rendere difficile anche solo immaginare una soluzione che si manifesti efficace in tempi apprezzabili. Perché al di là della fuga dei camici verso l’estero, il nostro sistema vive uno squilibrio preoccupante tra il numero di medici e infermieri che vanno in pensione e quello dei nuovi laureati che si affacciano alla professione, con i primi che sono da diversi anni in preoccupante vantaggio numerico. Così, di anno in anno, il problema assume proporzioni sempre più allarmanti.

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