Il 4 maggio del 2016, nel pieno della crisi migratoria e dei rifugiati che ha investito i confini comunitari a partire dal 2015, la Commissione europea, l’istituzione che gode del potere di iniziativa legislativa in seno all’Unione, ha proposto una revisione, la quarta in ordine temporale, del Regolamento di Dublino, il provvedimento che definisce le regole necessarie alla determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale.
Da relatrice per il Gruppo PPE, ho avuto l’occasione di lavorare alla stesura della posizione del Parlamento europeo su questo provvedimento, rappresentando con forza le istanze di un paese di frontiera come l’Italia, da sempre penalizzato, per ragioni geografiche, dalle regole previste dal Regolamento di Dublino attualmente in vigore, una fra tutte quella secondo la quale il solo fatto che un richiedente asilo sia illegalmente entrato nel territorio di uno Stato membro, costringe quest’ultimo a valutarne la domanda di asilo.
Posso fieramente ritenere che, il testo licenziato dalla Commissione Liberta Civili Giustizia e Affari Interni lo scorso 19 ottobre 2017, sostenuto successivamente da un voto a larga maggioranza da parte della Plenaria del Parlamento europeo, rappresenta un compromesso che, se implementato, ridurrebbe consistentemente il carico per il nostro Paese, socialmente piegato dal peso di un fenomeno di natura epocale.
L’eliminazione del criterio basato sul paese di primo ingresso irregolare, accompagnata dall’introduzione di un sistema di ripartizione permanente dei richiedenti asilo a livello europeo, sono soltanto due degli elementi innovativi che abbiamo introdotto, nella prospettiva di creare un sistema basato sulla condivisione degli oneri da parte degli Stati membri, e sulla necessità di garantire ai nostri cittadini un adeguato livello di protezione e di sicurezza.
Il Consiglio dell’Unione europea, che con il Parlamento europeo condivide il ruolo di co-legislatore, ha tuttavia mancato di recepire con tempismo il forte messaggio di rinnovamento lanciato dall’assemblea comunitaria.
La scarsa ambizione mostrata da parte della maggior parte degli Stati membri dell’Unione ha finito per relegare ai margini del consenso i paesi di frontiera, meritevoli di un riconoscimento reale per l’aver gestito isolatamente il fenomeno migratorio durante gli ultimi anni.
Dove finirà, allora, la riforma del Regolamento di Dublino?
La presa di coscienza secondo cui il fenomeno migratorio deve essere gestito in maniera lungimirante, e in una prospettiva a lungo termine, che tenga conto, da una parte, della necessità di distinguere a monte chi ha diritto alla protezione, dai cosiddetti migranti economici, prima che questi ultimi intraprendano un inutile e pericoloso viaggio verso i confini comunitari e, dall’altra, del bisogno di rafforzare il controllo delle frontiere esterne dell’Unione, crea, in realtà, una nuova occasione di rilancio della riforma.
Se riuscissimo effettivamente nell’intento di creare le condizioni per le quali soltanto i “veri rifugiati”, coloro che fuggono da persecuzioni e guerre, raggiungano l’Europa attraverso canali sicuri e legali, allora nessuna scusa sarebbe più plausibile. Allora nessuno Stato membro potrebbe esimersi dalle proprie responsabilità, trincerandosi al di là delle proprie frontiere.
Non tutto è perduto, allora.
Una combinazione coerente tra una dimensione esterna ed interna della politica migratoria europea salverebbe non soltanto la riforma del Regolamento di Dublino, ed il funzionamento della libera circolazione prevista dalle regole di Schengen, ma la reputazione dell’Europa intera.
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